Storia del Lambrusco – 4° puntata

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Continuiamo a riproporre l’opera di Guido Montaldo, “Il Lambrusco, un vino dalle origini antiche, dal gusto moderno“, pubblicazione della Camera di Commercio di Modena e dal Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi.

 

I vini con le bollicine al tempo dei Romani venivano chiamati anche “aigleucos” ed “acinatici”. I primi venivano prodotti con mosto a cui veniva ritardata la fermentazione immergendo le anfore in acqua fredda; i secondi erano vini ottenuti con mosti di uve passite (la produzione di Acinatico è stata ampiamente descritta nel VI sec. d. C. da Cassiodoro riguardo alla produzione nel territorio di Verona).

 

Cavalcando la storia, interessante è notare l’attitudine che le uve di viti selvatiche hanno sempre offerto in fatto di spumantizzazione, come dimostra l’opera di Padre Rodolfo Acquaviva (1658-1729) che tratta l’arte di elaborare il vino presso gli abitanti di Montepulciano. Quando Padre Acquaviva giunge a descrivere il mosto, scrive che questo mosto veniva addizionato di mosto cotto da uva Lambrusca, prima di essere rimesso a fermentare a contatto o no con le bucce.

 

Il mosto “di dolce uva Lambrusca” (che i contadini d’Etruria chiamano col nome dei padri, averusto, e quelli dell’Emilia agreste) riaccendeva la fermentazione.

 

La viticoltura nel medioevo

 

Duomo di Modena. Porta della Pescheria. Settembre: un contadino ha un grappolo in una mano e lo porta alla bocca mentre sta immerso in un mastello di legno tenuto insieme da larghi cerchi di ferro.

Duomo di Modena. Settembre: pigiatura dell’uva.

Quella che sopravvisse al mondo antico, come ha giustamente notato Antonio Ivan Pini nel suo libro “Vite e vino nel medioevo”, era una viticoltura limitata ma di prestigio, curata soprattutto dalla proprietà ecclesiastica alla quale era necessaria, per ragioni di culto (il vino per la messa).

 

Per ragioni difensive le piccole vigne che sorgevano intorno ai villaggi e ai monasteri, venivano cintate e racchiuse in broli (clausurae), in questo modo venivano protette sia dagli animali che pascolavano che dagli sbandati che si aggiravano nelle campagne.

 

Il modo di coltivazione delle vigne chiuse si modificò completamente con il conseguente abbandono dell’allevamento con il sostegno vivo (arbustum gallicum) e la successiva sostituzione della coltivazione bassa, a filari, ad alberello e a pergolato. Erano le premesse per una produzione qualitativa più elevata.

 

Una forte ripresa della viticoltura si ebbe in epoca carolingia, furono in effetti gli ecclesiastici, in primo luogo i vescovi, a promuovere attraverso l’estensione del contratto enfiteutico, la ripresa dei vigneti nei pressi delle città e di seguito i monaci, occupando i luoghi più appartati, iniziarono quelle immense opere di bonifica e roncatura, intorno alle loro abbazie.

 

XIII secolo, dal manoscritto Li livres dou santé di Aldobrandino di Siena. British Library, Sloane 2435, f. 44v.

XIII secolo, dal manoscritto Li livres dou santé di Aldobrandino di Siena. British Library, Sloane 2435, f. 44v.

 

Oltre al fatto di essere indispensabile al culto cristiano, il vino nel medioevo assolveva anche a certe necessità, in primo luogo quella dell’alimentazione, ma parallelamente anche nella medicina e in particolare nella farmacopea, all’interno della quale il vino occupava un posto di primaria importanza e i monaci erano dei veri specialisti.

 

Continua…

 

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