Nella bottiglia l’anima del vino – era di sera –
cantava: “Caro povero uomo, dalla prigione
del vetro e sotto questa rossa laccata cera,
ti giunga luminosa, fraterna, una canzone.
So bene quanta pena, quanto sudore occorra
sulla collina in fiamme, sotto il sole cocente,
perché io abbia un’anima, e la vita in me scorra.
Ma non sarò ingrato, non sarò impudente.
Provo una grande gioia quando soave piombo
nella gola d’un uomo sfibrato dal lavoro:
perché il suo caldo petto è per me dolce tomba,
meglio che in una fredda cantina là dimoro.
Non senti le domeniche punte da stornellate,
la speranza che mi alita nel seno palpitante?
I gomiti sul tavolo, maniche rimboccate,
tesserai le mie lodi, con il cuore contento.
Lo sguardo alla tua donna, nell’amore rapita,
accenderò, a tuo figlio darò forza e colori,
e sarò per quel fragile atleta della vita
l’olio che ben rassoda le membra al lottatore.
In te farò cadere la vegetale mia
ambrosia, raro seme che il gran Seminatore
sparge perché dal nostro amore poesia
nasca e verso Dio salga come un prezioso fiore”.